Ho diritto al lavoro.

Da quando siamo diventati così tanti e organizzati, abbiamo fatto un grandioso sforzo di armonizzazione, fino a raggrupparci in 193 nazioni. 
Ci siamo spartiti il mondo intero.
Ora non posso uscire dal mio Stato senza entrare in un’altro.
Ovunque vige un patto sociale, regolato da leggi cui devo sottostare: non posso soddisfare le mie necessità liberamente, ma sempre e solo all’interno di un’organizzazione sociale, che pertanto deve garantirmi un lavoro, come diritto, e come dovere. 
Ciò che nello stato di natura era necessità, l’abbiamo trasformato in diritto. 
Ma resta necessità, perché ne va della vita.


La costituzione italiana mi riconosce il diritto al lavoro, impone alla repubblica di muoversi per garantirmi un lavoro, impone a me di concorrere al progresso materiale o spirituale della società impegnandomi in un lavoro, secondo le mie possibilità e la mia scelta.


Questa possibilità e questa scelta oggi talvolta sfociano in un sentimento ostile nei confronti del lavoro. 
La complessità di un’organizzazione di 60 milioni di individui obnubila.
L’agio conseguente allo sviluppo tecnologico ed economico dell’ultimo secolo intorpidisce. 
La cultura pervasiva del divertimento e del lusso, veicolata dall’onnipresente pubblicità, induce ebbrezza.

Perché devo lavorare?
Io voglio fare quello che voglio.
Lavori chi vuole lavorare.
Io invece voglio divertirmi, fare quello che mi piace. 
Io sono un artista, voglio cantare, scrivere, fotografare.
Io voglio fare l’attore, il calciatore, l’influencer.

E’ una forma di delirio. 
Come se pensassi: chi vuole respirare respiri pure, a me non diverte e lo trovo faticoso, io voglio fare altro, io voglio esilerarmi in apnea!