Voglio fare fatica.

La mia stella polare non è l’agio.
Altrimenti un giorno forse mi sosterrà qualcosa che percepirò come una nuvola soffice e confortevole, che mi avvolgerà tutta la notte, al mattino mi solleverà in piedi senza peso, come levitassi, in un lampo piacevole mi porterà dove vorrò, seduto su quella cosa a gustare una colazione preparata all’istante per una mia gentile parola; poi mi porterà al lavoro, se ancora avrò necessità o voglia di lavorare, senza sforzo, un atto verbale performativo, o dovunque gradirò, a fare qualunque cosa vorrò, senza fatica, sempre sostenuto e portato da quella cosa, cui il mio corpo sarà abbandonato, felicemente rilassato, piacevolmente contenuto.
Corpo inutile ormai.
Se vorrò preservarne la forma, dovrò muoverlo in palestra. 
Il movimento diverrà astratto come il lavoro.
Non farò più la fatica di camminare: correrò su un tapis roulant.
Non solleverò più le tapparelle di casa: solo manubri da 120 kg.
E quando sarò stremato da una vita di purissimo agio e divertimento, quando sarò esasperato da una noia mortale, allora vedrò ciò che molti neo pensionati scoprono inopinatamente dopo aver trascorso quarant’anni desiderando un vitalizio: che la fatica mi è necessaria a dare senso.


È sostanzialmente diverso se attivo la planetaria, oppure impasto il pane con le mie mani. 

Non parlo del risultato organolettico. 

Parlo di ciò che accade a me, e a chi vede o sa ciò che ho fatto.

Sono mondi diversi.

Se mi muovo su un’automobile, o in bicicletta.

Se pedalo o uso batterie. 

Ogni mia scelta spinge il mondo in una direzione o in un’altra. 

Non parlo di amish o luddismo. 

Parlo di equilibrio e sensibilità.

Ognuno ha la sua. 

Provo a sedurti.